di Riccardo Pivirotto
Parte I – DALLA SCOPERTA ALL’IMITAZIONE
1,I. Introduzione
La prima e importante scoperta dell’antica produzione ceramica in Acquapendente fu fatta agli inizi del ventesimo secolo da Domenico Fuschini. Nato a Castiglion Messer Raimondo (TE), trascorse la sua gioventù a Firenze, dove la predilezione artistica della città lo portò a comprendere l’importanza delle preziose opere esposte nelle botteghe antiquarie. Congedandosi nel novembre del 1897 dal corpo delle Guardie di Finanza di Brindisi, nel 1906 si trasferì stabilmente a Orvieto. Influenzato dalla presenza nel sottosuolo di varie cavità dalle quali, archeologi, antiquari e privati cittadini, estraevano febbrilmente manufatti di ogni genere, divenne presto l’iniziatore del collezionismo ceramico e di altri oggetti medievali non meglio specificati. Compare per la prima volta come “antiquario” in un documento datato 27 Maggio 1907, relativo a un elenco di oggetti da donare al Museo Civico. L’anno successivo, assieme al prof. Getulio Ceci e l’avv. Arcangelo Marcioni, diede vita a una singolare Società, che contemplava nell’atto costitutivo le finalità, legate alla ricerca dei pozzi, all’acquisto dei materiali ceramici sino alla rivendita degli oggetti, ovviamente, affidando al Fuschini la vendita delle ceramiche nell’importante piazza antiquaria di Firenze.1 La qualifica di libero professionista compare per la prima volta il 16 agosto 1908 nella ricevuta di spesa di un ricco commerciante inglese, Ser Herbert Percy Horne. Nella notula, si definì come, “Collezionista di majoliche medioevali, amatore di oggetti antichi e di curiosità”, per avergli venduto un piatto realizzato nei primi anni del XVI secolo a Lire 20, e altri piccoli oggetti in metallo. L’attività di ricercatore antiquario e scavatore abusivo lo portò inevitabilmente a dei contrasti con altre compagnie di scavo, inducendolo a compiere atti deprecabili. Fu citato in tribunale a rispondere di maltrattamenti, inferti a colpi di bastone contro il Signor Guglielmo De Ferrari, per essere stato apostrofato come “canaglia e ladro”.2 La causa a noi ignota porta a supporre che la lite sia scaturita per la compravendita di ceramiche, frutto di un intenso giro di affari avviato in Orvieto, comprando ed esportando il materiale pervenuto da scavi clandestini. In seguito il Fuschini vendette al Museo del Bargello di Firenze un’intera partita di ceramiche medioevali, traendone un ottimo profitto. Il corredo era composto di alcune particolari tazzine decorate a tema religioso, proveniente dallo svuotamento illegittimo di un pozzo in Via de’ Dolci.
L’antiquario Domenico Fuschini (il primo a destra) – Collezione Ronca
Lo stesso anno, donò alcuni oggetti di epoca Romana e Medioevale al Museo Civico di Orvieto, per esporli nelle opportune teche espositive.3 Negli anni seguenti la sua ambiziosa attività si spostò oltre i confini nazionali, esportando e importando maioliche da Londra, tanto che l’antiquario e poeta Augusto Jandolo affermava “Dove si fecero bei piatti di Mastro Giorgio e di altri grandi majolicari italiani”, probabilmente riferendosi a una intensa opera di falsificazione delle maioliche riprodotte fedelmente alle originali, provenienti in Italia dal mercato londinese.4 Il Fuschini, non riuscendo più criticamente a distinguere gli oggetti veri da quelli falsi, per gli effetti provocati dalle tante falsificazioni presenti nel mercato antiquario, terminò di lì a poco la sua attività. Nel Marzo del 1910 una curiosa notizia apparve sui quotidiani nazionali (La Stampa, La Gazzetta del Popolo, il Momento Sera). Alla stazione di Porta Nuova di Torino, un certo Domenico Fuschini, nel seguire le operazioni d’imbarco di una grande cassa di legno bianco, diretta in Francia per poi proseguire come bagaglio “Arredi teatrali” per Londra, gli fu contestato la spedizione dall’amministratore di ferrovia. La particolare mole dalla cassa depositata di fronte all’ufficio della dogana, e l’eccessiva enfasi del Fuschini nel dimostrare che il contenuto fosse composto soltanto di arredi teatrali, destò sospetti. Soggetta al controllo della polizia doganale, si scoprì che questa conteneva al suo interno una “Bica” romana in bronzo (metà falsa). L’eco della notizia lo portò inevitabilmente a intraprendere un nuovo percorso commerciale, conscio di non poter continuare nessuna attività verso Nord, sviluppò una nuova rete antiquaria verso il Sud della penisola, richiedendo il permesso di vendita di terraglie e majoliche nella città di Napoli. Le molte attività commerciali e la particolare attrazione verso la ceramica cambiarono significativamente il suo processo di vita. Uomo molto asciutto nel fisico e pieno d’intraprendente volontà commerciale, in quegli anni seppe illuminare il percorso della conoscenza artistica, riconoscendo nella cittadina di Acquapendente le prove inoppugnabili della produzione di antichi manufatti ceramici. Presto divenne capo-carceriere in Acquapendente e, durante i lavori di adeguamento strutturale del complesso penitenziale, situato all’interno del castello, scoprì un “Pozzo da butto” contenente acqua. Durante l’opera di drenaggio furono trovati una moltitudine di frammenti ceramici di epoca medioevale, alcuni di un tipo molto raro, definito a “Goccioloni”, per le escrescenze di colore blu applicate come decoro sul corpo ceramico.5 Il particolare rinvenimento all’interno della cavità, suscitò in lui un oggettivo interesse, analogo alla passata esperienza nella città umbra, riconoscendo, nella frammentazione di piatti, ciotole e boccali, la conseguente azione legata alla peste che, afflisse molti secoli prima gli orvietani. La sua ragionata conclusione lo portò a ricordare che in alcune antiche carte, usate per avvolgere le arance, riportavano le ordinanze del Podestà di Orvieto, tra cui quella di lavare le stoviglie prima di gettarle all’interno del pozzo. Le ricche famiglie buttavano via non soltanto le stoviglie in metallo prezioso, ma anche le maioliche più pregiate, credendo con cieca superstizione di sentirsi al sicuro da qualsiasi contagio se occultate al loro interno. L’usanza di gettare dei materiali inerti nei pozzi per purificare il prezioso liquido è comune a molte cittadine, ad esempio a Pitigliano (GR), ancora oggi durante lo svuotamento dei pozzi si rinvengono dal fondo delle pietre scure basaltiche di vario volume, denominate dai locali “le pietre della Lente”, prelevate dall’omonimo fiume sottostante l’abitato. Nel pozzo del castello di Acquapendente, oltre alle ceramiche medioevali, furono trovate delle maioliche graffite sulla superficie, colorate di marrone e di verde. L’interesse per l’antico, originato da innumerevoli manufatti, fu tale che Domenico Fuschini intraprese con impegno lo studio della ceramica. Analizzando con attenzione la moltitudine dei frammenti comprese l’importanza di come ripresentarli all’attenzione antiquaria, imitandoli così perfettamente nelle forme e nei decori, tanto da studiare innovative tecniche d’invecchiamento. L’innato interesse per le cose antiche e l’amore per Maddalena Salvatori spiegano i motivi del perché il Fuschini nel 1926 visse stabilmente in Acquapendente, impiantando una fabbrica di maioliche artistiche negli ambienti adiacenti al convento di San Francesco. La sede lavorativa, composta di ampi spazi disposti su vari livelli, ospitò moderni laboratori per la preparazione degli smalti e vernici, accogliendo operai qualificati fatti venire dal noto centro di produzione ceramica di Castelli (TE), Franco Facciolini (tornitore e decoratore), Ottavio Rosa (tornitore), Erbace ed Elia Rosa (decoratori). Inoltre, per la particolare specializzazione di Mastro Concezio, chiese di costruire forni in nenfro per la cottura delle ceramiche. La produzione artistica proseguì alacremente e alcuni anni dopo assieme al socio “Elia Rosa” avviarono una nuova produzione composta di giocattoli, fischietti, presepi e altre suppellettili, comprese le maioliche artistiche di uso comune, nelle quali riprodusse decori simili a quelli rinvenuti nei pozzi. Le ceramiche prodotte ricoprirono cronologicamente un periodo dal tardo Medioevo fino al Novecento, esportate ovunque, soprattutto in Inghilterra, furono un’importante fonte di guadagno. Il ruolo di produttore e mercante d’arte di ceramiche “false” fu reso evidente dai suoi rapporti epistolari con i vari musei, riscontrando la vera natura intricante di Domenico Fuschini. All’interno delle casse di spedizione, destinate agli antiquari e ai mercanti inglesi, assieme alle maioliche moderne inserì quelle false; lo affermò Pico Cellini, uno dei più famosi restauratori italiani, il quale disse che “al South Kensington Museum (oggi Victori & Albert Museum) ci sono maioliche rifatte”. Completamente false, vendute dall’”Anticaio” Domenico Fuschini, che al ritorno dai fruttuosi viaggi londinesi ai suoi compaesani amava dire: “Sono stato a Lontre”.
Alcune ceramiche artigianali, realizzate nella fabbrica Fuschini e Rosa
2,I. La trasformazione delle cavità Sub Terris in “Butti”
Il territorio della Tuscia fu soggetto a sovrapposizioni di strati e ceneri vulcaniche, prodotte attorno a 155.000 anni fa, formatesi da antiche bocche eruttive del preesistente cono di Bolsena. La spessa coltre stratificata dalle ceneri vulcaniche formò livelli di varia consistenza e colore, ricoprendo terreni sabbiosi, ghiaiosi e argillosi di epoca quaternaria e pliocenica, caratterizzata per i colori del tufo giallo-rossastri. La conformazione geologica, composta prevalentemente da aspre dorsali, fu incisa profondamente da corsi d’acqua, sviluppando un paesaggio ricco di caratteristiche litologiche e morfologiche, definito oggi come area dei tufi. Spesso segnalato nelle carte mineralogiche internazionali, per la particolare rarità e ricchezza di minerali rinvenuti nell’area naturalistica, offre spunti di varia bellezza paesaggistica. L’aspetto morfologico di origine vulcanica favorì a cavallo degli speroni rocciosi la nascita dei primi insediamenti umani, propagandosi sino a tutto l’alto medioevo. Nelle piattaforme naturali sorsero i primi borghi fortificati, basando essenzialmente la propria economia sull’attività agro-silvo-pastorale, viti vinicola e cerealicola. La crescente condizione sociale portò a dettare nuove regole ambientali per la lavorazione e il deposito delle risorse agricole. Nel tessuto urbano si realizzarono manufatti per la trasformazione dell’uva in vino (palmenti) altri per la lavorazione delle pelli e altri ancora per contenere e conservare le derrate alimentari (silos). E grazie a un’intensa attività di raffinazione dei prodotti agricoli fu modificata la naturale conformazione del terreno, ricavando all’interno del banco di roccia vulcanica particolari cavità di forma ovale, definite “sub terris”. Lo stoccaggio e il mantenimento dei cereali in queste “fosse da grano” o “silos”, ricavate all’interno di un ambiente adibito a magazzino e orientato a mezzogiorno, fu possibile grazie all’ottima conservazione, sia per una ridotta capacità di germinazione sia per la protezione dagli agenti climatici.6 La pratica di conservare delle granaglie in silos prende spunto dalla società rurale Etrusca, attestata dal recupero archeologico di alcune fosse rinvenute a Orvieto;7 e in altre in ambito Romano con la realizzazione di grosse giare (Doleum) tenute interrate sino all’approssimarsi dell’orlo in superficie. Numerosi sono i silos ancora oggi visibili negli insediamenti rupestri di Vitorchiano, Bomarzo e Vetralla, permettendoci di tracciare una sequenza storica omogenea. Similitudini si colgono nell’insediamento rupestre di Vitozza, situato presso la frazione di S. Quirico nel comune di Sorano (GR), a seguito delle indagini archeologiche si è potuto dimostrare come sia cambiatala loro destinazione d’uso nell’arco dei secoli.8 La ricerca diretta dal sottoscritto e da alcuni membri dell’Ass. Archeologica di Pitigliano e Sorano in accordo con la Soprintendenza Archeologica della Toscana ha messo in luce, all’interno di una Grotta (n°74), due fosse da grano di forma a fiasca dalla profondità di circa 230 cm con diametro massimo di 200 cm.. La prima fossa da grano, posta centralmente al locale destinato a magazzino, ci ha dimostrato come l’attività rurale all’interno degli spazi urbani abbia permesso, nel Basso Medioevo, la creazione dei silos in ambiente protetto. Lo straordinario rinvenimento in sito, di sette assi di legno (Quercus) inserite orizzontalmente una di fianco all’altra nel cono inferiore, suggerisce attendibili prove sulla netta separazione delle granaglie dal fondo umido. Mentre il pozzo ricavato vicino all’ingresso, privo dell’incavo necessario per l’alloggio delle assi di contenimento, dimostra come il suo impiego, antecedente al secolo XV, fosse imputato all’accoglimento dell’acqua piovana, fatta drenare all’interno del pozzo mediante un canale artificiale creato lungo la parete confluente. La seconda fossa da grano, rinvenuta all’esterno, in ambiente domestico strutturato con muro ad opera a sacco, mostra ancora la funzione originaria di contenitore per accoglimento delle derrate alimentari. Nel cono inferiore, a circa 70 cm. dal fondo è ben evidente l’anello ricavato nella parete per l’alloggiamento delle assi di legno, del tutto simile alla prima fossa. La conseguente trasformazione a pozzo di scarico è resa palese dal materiale rinvenuto al suo interno, compreso il corpo ceramico, databile all’ultimo quarto del secolo XIV.9
La collocazione delle assi all’interno della cavità sub terris
La trasformazione delle fosse da grano ebbe origine da precise disposizioni igieniche sanitarie, emesse da indiscutibili norme statutarie coordinate da controlli comunali, regolando e proteggendo l’integrità fisica di ogni cittadino. Il diverso accoglimento delle cavità è reso evidente anche dal Fuschini, quando riferisce che alla morte del canonico Girolamo Saracinelli, discendente di una nobile famiglia orvietana, acquistò alcune antiche pergamene, scritte con caratteri a lui incomprensibili. Per capire cosa riportassero affidò la traduzione a un sacerdote francese. Ascoltandolo con curiosa attenzione apprese che la pergamena era una copia della bolla di Bonifacio VIII emanata nel 1299, la quale vietava agli orvietani di gettare le immondizie nelle strade, obbligandoli a scavare un buco profondo all’interno delle abitazioni, dei magazzini o fuori negli orti, per riporvi all’interno resti di vivande, deiezioni umane e tutte le altre immondizie, e poi di chiuderli con coperchi per limitarne le maleodoranti esalazioni. Simili disposizioni si attuarono in diverse cittadine, per esempio, nello statuto del 1287 della città di Ferrara, apprendiamo come venne migliorata l’igiene pubblica e la gestione dei rifiuti per pro decore civitatis ma anche pro maiori sanitate hominum civitatis… et burgorum. Ogni singola famiglia doveva provvedere al proprio contenitore di smaltimento biologico, e qualche decennio dopo un’altra legge popolare (1324-30) sancì il divieto assoluto di gettare rifiuti solidi e liquidi al di fuori dell’abitazione, questo per proteggersi dalle malattie endemiche. Nel 1347-48 l’Italia fu colpita dal terribile morbo della Peste Nera, le morti conseguenti furono numerose, le cittadine si spopolarono, e la paura generata consigliava la coatta trasformazione dei pozzi, gettando all’interno gli oggetti posseduti dall’appestato. Molti secoli dopo iniziarono le prime affannose ricerche delle preziose suppellettili gettate all’interno dei pozzi, e come abbiamo visto, lo stesso Domenico Fuschini, sperò di trovare chissà quale tesoro, dando inizio alla fervida opera di scavo; forse forchette, coltelli o cucchiai d’oro, gettati lì per il terribile morbo, gli avrebbero assicurato un proficuo guadagno. Altri dopo di lui provarono ma nulla uscì dalla terra, se non quella particolare ricchezza delle ceramiche medievali, composta di frammenti in parte completi. Ancora oggi la ricerca della ceramica attraverso lo scavo dei “butti” è perlopiù praticata clandestinamente, privando sia la conoscenza scientifica delle varie fasi stratigrafiche che hanno composto il loro riempimento, e sia la contestualità storica dei manufatti. Il contenuto del pozzo che, generalmente copre un periodo che va da XIV al XVIII secolo, costituisce un documento storico di straordinaria importanza, rappresentando sequenzialmente uno sguardo al passato, in grado di trasmettere informazioni legate alla relazione dell’organismo urbano.10 Ripercorrendo gli strati a ritroso nel tempo consente di analizzare la dieta della famiglia, mentre i manufatti di vario materiale, vetri, bronzi e ceramiche ci descrivono un’interessante pagina culturale del nostro passato.11
La Sezione di un Butto
PARTE II
FIGULI E VASCELLARI AQUESIANI
1,II. L’Arte della vascella
Gli oggetti che hanno segnato la vita dell’antiquario Domenico Fuschini provengono da un passato in cui la ceramica ha accompagnato l’uomo nella sua evoluzione, contribuendo soprattutto nel periodo rinascimentale a sensibilizzare la cultura popolare. Le umili dimore, povere di arredi e di contenuti, furono impreziosite con suppellettili dalla svariata forma e dalla multicolore iconografia. L’uso giornaliero degli oggetti in ceramica era tale che molti cedevano ad altri lo spazio sulla mensa terminando la loro utilità, come spesso accadeva in quel tempo, in depositi temporanei di raccolta o gettati all’esterno delle abitazioni. La nuda materia plasmata dalle mani dell’uomo e forgiata ritmicamente dai magli meccanici, ancora oggi nutre un fascino particolare per le innovative tecniche stilistiche e per le tecnologie a essa applicate. Trasformata da secoli di cultura in vere e opportune forme d’arte, si arricchisce sempre più con rinnovato gusto estetico. Lo sviluppo qualitativo della ceramica divenne un ottimo propulsore per le varie attività artigianali a essa collegate, soprattutto per la cittadina di Acquapendente, ricca di quelle peculiarità naturali che gli consentirono di diffonderla ovunque. Le attività dei figuli e dei vasai aquesiani che animarono lo spirito imprenditoriale nella seconda metà del XVI secolo, furono portate alla conoscenza dalle fonti d’archivio scritte dal notaio Pietro Paolo Biondi, in: Croniche di Acquapendente (1588 – 1589) e “Descrittione di tutti li casati della medesima terra, coll’antiquità o modernità loro”; giunte a noi grazie alla trascrizione del 1718 di Giuseppe Alessandro Taurelli dei Salimbeni.
La bottega del Vascellaro
L’importanza raggiunta in quel periodo dai maestri vasai, scaturì essenzialmente da diversi fattori, primo fra tutti fu la possibilità di estrarre dalla terra la materia prima, l’argilla. Reperibile nel territorio in quantità rilevante, era trasportata nelle immediate vicinanze della bottega artigianale, pronta per essere manipolata in vasche colme di acqua, pervenuta da alcuni rivoli presenti nella cittadina.12 La dislocazione delle botteghe e dei mulini, utilizzati per macinare i colori da applicare sulle ceramiche, era circoscritta alle famiglie dei ceramisti e figuli residenti nel centro urbano, poste prevalentemente nelle zone prossime al passaggio di acqua. Presso Porta della Ripa “rincontro all’Ospedale detto di S. Maria della Scala è un borgo d’Hostetrie, e solo vi habita uno di casa Bernabei …. li quali si trovano in detta terra l’anno 1504 sono state persone industriose et ora ce ne sono tre famiglie de’ quali doi sono pittori di vascelleria …”. Mentre, la scelta per un gruppo di famiglie (Bastiano Politano, Alessandro Massari, Remedii, Masci) di risiedere nelle immediate vicinanze della via Romana (la via Francigena), consenti loro un facile approccio alla committenza pubblica. La considerevole produzione fu resa possibile grazie all’arteria stradale della Via Francigena, percorsa e disegnata dai Longobardi poi dai Franchi, compare per la prima volta in un documento del IX secolo con il nome di Via Francisca. Nel secondo millennio con l’intensificazione dei pellegrinaggi la sede stradale fu frequentata da una moltitudine di persone, posta in stretta comunicazione tra i paesi del centro nord e lo Stato della Chiesa, condusse a stretto contatto gli artigiani ceramisti con i viaggiatori provenienti da lontane località. La qualità produttiva raggiunta dai vasari e dai figuli aquesiani, è resa nota negli atti redatti dal notaio Pietro Paolo Biondi, il quale commentava: “Sono ancora in detta terra tutte le sorte d’arti, ma in maggior quantità sono Calzolari, et vasari, altrimente detti Vascellari, de quali sorte d’arte si lavora benissimo, et àh gran spaccio, et li vasi lavorano di sottile bianco finissimo ad uso di Faenza, et se ne fa gran spaccio in Roma per le Corte di Cardinali, et di Prelati, li quali mandano a posta in detta terra à farne fare li finimenti”. L’evoluzione artigianale dei vasai e dei figuli, presenti agli inizi del XV secolo in Acquapendente, la apprendiamo in frammentarie notizie, provenienti dal fondo notarile dell’archivio di Stato di Viterbo.13 Il resoconto generale delle maestranze attive in quel periodo, ci induce a supporre che nel secolo precedente alcune di loro fossero già presenti ad Acquapendente.14 La conferma potrebbe essere resa esplicita per alcune ceramiche rinvenute a seguito di attività archeologiche nei pressi della chiesa di S. Agostino, presentando peculiarità tali da far supporre che siano state realizzate e cotte nel XIV secolo in Acquapendente.15 Dalla metà del secolo XV abbiamo una nutrita schiera di mastri vasai operanti in Acquapendente, e sono: Francesco di Angeluzio (1423), Giovanni di Domenico (1453-1460), Giovanni di Meo (1452), Liberato di Antonio (1464), Pietro Paolo di Mecangelo (1475), Pompilio Patrizii (1490). Mentre alcuni di loro provengono da altre città, da Viterbo: Benedetto di Pietro (1438), Tomaso di Angelo (1439-59); da Orvieto: Francesco di Angelo detto Romanelli (1448-69), Fiano di Giacomo (1451-87), Angeluzio di Nerio (1459-76), Francesco di Giacomo (1461-76); da Asciano: Giacomo di Francesco Barti (1452-85); da Canino: Mariano di Angelo (1464-75); da Siena: Angelo di Francesco (1422), Antonio di Petruzio (1423), Caterino di Nanni (1457).16 Possiamo notare come a cavallo tra il XV e il XVI secolo le diverse scuole artistiche messe a confronto, inevitabilmente contaminarono le forme e la cromaticità dei decori applicati su di esse, permettendo in seguito di raggiungere un livello qualitativo abbastanza buono, per sostenere un confronto con altri prodotti venduti nei mercati importanti di Roma. Nella città di Pietro, dove il commercio della ceramica era molto sviluppato, si pretendeva un attento controllo di vendita sulla merce proveniente da altre località. La valutazione venne in parte dettata dai consoli dell’arte dei vasai romani, tanto da pretendere il pagamento di due carlini per ogni “Soma” di ceramiche provenienti da Urbino, Faenza, Gallese e Fasanello, mentre quelle di Deruta e Perugia si pretendeva oltre che al denaro anche l’obbligo di un severo controllo. L’acquisizione degli oggetti da parte delle botteghe era determinata in ragione di “una cesta”, il raffinato contenuto poteva essere acquistato soltanto dagli artigiani vasai più ricchi, monopolizzando un mercato corporativistico, predisposto per una proficua spartizione dei lussuosi manufatti.
Doppio Carlino (5.36 g). zecca di Roma
I ricercati manufatti che pervenivano sulle mense dei nobili signori divennero con il passare del tempo sempre più onerosi, tanto da indurre Cardinali e Prelati a portare in Acquapendente le ceramiche in prima cottura “a fare finimenti”, perché i mastri vascellari così raffinati sanno rivestire il manufatto di un “sottile bianco finissimo ad uso di Faenza”. L’esportazione della considerevole produzione ceramica aquesiana raggiunse i mercati di molte città e la sempre più crescente domanda, attraverso un prodotto pregiato, spinse i rappresentanti dei vasai a potenziare sempre più quel sodalizio professionale già presente in Acquapendente. La qualità e la quantità di ceramica prodotta indusse i vasai e l’orciolari a costituirsi in Arte con propri rappresentanti, al solo scopo di proteggere la merce e le tecnologie a esse applicate. Nell’atto stipulato alla presenza del notaio Ludovicus Morellus 1546, feb. 18 (prot.480 f. 247v, 249v) tutti i maestri d’arte vasai e figuli Angelo di Francesco Gatti, Francesco Rubei, Giacomo di Pietro Caterini, Battista di Mariano Montacchielle, Simone Marini, Antoni di Pietro Baldaccini, Dino Rubei, Angelo Rimedij, Geronimo Gretiilij, Meco di Pietro, Pietro Canaponis, Martino di Andrea, Baldino di Benedetto e Cecco di Giovanni Pasque, si impegnano per tre anni a produrre e vendere ceramica agli acquirenti Teodoro di Antonio e Fiano di Sebastiano. Nei vari capitoli, Dei Consoli dè Vascellari della Comunità di Acquapendente, si legge: ”Similmente i vascellari, o orciolari dovranno eleggere due consoli, i quali dovranno avere tutte le facoltà, prerogative, aiuti e favori, che godono i Consoli delle altre arti, come già detto né precedenti Capitoli” e ciò “di comandare à tutti gl’Uomini dell’Arte in materia ad essa spettanti, et à questi similmente il Governatore, e suoi Ufficiali devono prestare ogni aiuto, a favore, et Uomini, come anche potranno far leggi in quello riguarda l’Arte loro, purchè non siano contrarie alla Legge Comune, alla ragione, et al buon vivere di questa Città”. Le corporazioni presenti in città, appartenenti all’arte cosiddetta minore, garantivano stabilità e controllo, rendendosi evidenti durante la festività del 15 di Maggio dedicata alla Madonna del Fiore, i vasai partecipando alla solennità dell’evento, portavano un cero di ringraziamento, seguendo un prestabilito ordine. Alla processione il Cerio di Vascellari occupò il decimo posto, e in seguito, per il prestigio economico raggiunto da una singolare produzione ceramica con l’unione corporativa dei vasai assieme ai fornaciari, modificarono l’ordine di partecipazione all’evento festivo dell’Assunzione del 15 Agosto, occupando l’ottavo posto, scavalcando “Hosti e Tavernieri” e “Macellari e Pecorari”. Nella scala dei valori occupare un prestabilito posto significò, attraverso l’unione senz’altro proficua dei fornaciari con i vascellari, la dimostrazione di un certo prestigio raggiunto, anche se le due categorie lavorassero in diversi luoghi. Mentre questi ultimi operavano fuori delle mura cittadine, per il reperimento della materia prima e per il controllo della fornace durante la cottura, i vasai lavoravano all’interno, nelle proprie botteghe, poste generalmente sotto la propria abitazione. Favoriti dalle condizioni naturali, alcuni di essi abitarono e lavorarono lungo il percorso cittadino, soddisfacendo i bisogni della loro attività. Presso la fonte del Rigombo dimorarono diverse famiglie di figuli, (Alessandro Palazza, Giovanni di Niccari, Agostino Agniluzzi, Vivenzo del Veglia, Pompilo Patrizi). Agevolati dalla condizione del luogo, necessaria per la preparazione e la lavorazione dell’argilla, e per la particolare vicinanza della piazza centrale della città, proponevano durante lo svolgevano del mercato la vendita dei manufatti ceramici. Altri ceramisti abitarono l’altra fonte detta del Canale, (Baldino Vascellaro, Pietro d’Arcangelo Patrizi) occupando aree di lavoro espressamente dedite ai figuli per la presenza di mulinelli utilizzati per la macinazione dei minerali per farne colori. Il notaio Biondi nella sua particolare opera documentaria ci descrive minuziosamente i quartieri e gli artigiani in esso presenti; dalla meta del secolo XVI compaiono nei documenti, Franciscus Gapty Vascellarius, capostipite di una importante famiglia di ceramisti, che proseguì con Giovanni, figlio di Sebastiano Gatti vascellaro e figulo, avevano la bottega situata nel quartiere di Santa Vittoria, presa a livello dai frati di Sant’Agostino. Attigui alla “chiesa del santo Pietro fino al Corso della Recisa si trovano i Politiani” famiglia di vasai venuta da Monte Pulciano, poi ci sono li Massari, vascellari provenienti da Perugia; i Mascio venuti da Firenze come calzolai poi intrapresero l’arte della vascella; i Di Pace, originari di S. Angelo in Lizzola (Pesaro); i Remedii vasai e figuli, che “[…] così seguono li discendenti, Vè ne sono doi fameglie con le case quasi attaccate. Hanno hauto l’officio del Priorato in terzo grado”. La bottega di questa famiglia, riportata nelle carte notarili, la seguiremo più avanti, qualitativamente importante dal punto di vista artistico e produttivo, seppe realizzare un sodalizio proficuo creando delle rilevanti relazioni economiche, spingendosi oltre i confini prestabiliti in un mercato moderno dove la protezione e il controllo della merce erano affidati concettualmente a una “local Trust”.
Acquapendente G.G. De Rossi, 1686
Gli importanti nuclei familiari di vasai e figuli abitarono e lavorarono presso la via Romana, oggi via Cesare Battisti e via Roma. La loro merce, esposta nelle botteghe lungo la via di comunicazione tra Siena e Roma, attirava l’attenzione del viaggiatore, il quale messo in stretta relazione con i manufatti ceramici ne diveniva un potenziale cliente. Lo stesso notaio osservò che il mercato della ceramica fu un ottimo veicolo di lancio sociale per alcune famiglie, mutando nel corso della vita artigianale l’umile condizione, cambiando perfino il loro stile di vita, “… che già erano bassi, et ora son Nobili”. Le leggi contemplate nello statuto di Acquapendente indicavano in maniera democratica quali famiglie porre ai vertici del Governo, e grazie ai propri meriti avrebbero avuto la carica di Gonfalonierato o di Priorato e di insignire la propria famiglia del titolo nobiliare. Tra gli scritti troviamo ben tre casati vascellari insigniti della carica di nobili: gli Agniluzzi (Priorato del secondo grado), i Remedii (Priorato di terzo grado) e i Patrizi (Priorato). Giusto richiamare in questa occasione la preziosa e ampia documentazione che Buonafede Mancini ha pubblicato nel convegno di Acquapendente del 1995, dandomi numerosi suggerimenti per la ricerca storica dei figuli aquesiani.17
PARTE III
I RIMEDI, FIGULI E VASCELLARI
1,III. I Rimedij
La presenza di figuli e vascellari dal rilevante bagaglio artistico elevò la città di Acquapendente tra i più importanti centri artigianali, esportando i loro prodotti nei lontani mercati, dove furono apprezzati per i decori e per le forme innovative. Destano particolare attenzione quelle maestranze che, citate attraverso le loro attività, contribuirono con i diversi sistemi di lavorazione della ceramica a far nascere nuovi interessi commerciali. In quest’occasione, ci soffermiamo sull’importante bottega della famiglia dei Rimidij, forse non originaria di Acquapendente, arrivò a occupare il terzo grado di Priorato, guadagnandosi il titolo di “nobili”. Attraverso i documenti, relativi ai primi anni del sedicesimo secolo, rileviamo che la bottega di Angelo Remedi o Rimidij non è ancora presente in Acquapendente. Proveniente da un’altra città per opportune convenienze commerciali o forse facente parte di quella schiera di vasai e figuli regolamentati dal capitolo d’appalto dell’arte “non si possa né debiano lì Mastrij tenere in detto tempo si no cinque lavorantj di terra forastierj execepto quello volesse far lovoro sottile ma non per lavori grossi” (Ludovico Morelli, sr prot.480 (1542-1547), c.248v.). Il nome di Angelo Remedi, probabile capostipite della famiglia, compare ancora in un documento datato dicembre 1564, come amministratore della moglie Finoria con l’incarico di tutore di sicurtà della dote assegnata alle nipoti Domenica e Terenzia, spose dei maestri figuli Cimiano e Tranquillo Stellifero (Luigi Capitani prot.224 (1568-1572), c.92). Il Magister Cimiano o Gimignano Stellifero è citato tra l’altro nel verbale delle adunanze consiliari, eseguito il 14 giugno 1579 nella città di Castro, nel quale è definito “Vascellarious modernus”, forse riferito all’innovativa tecnica della maiolica bianca in stile “compendiario”.18 Invitato a praticare l’arte, perché questo sarebbe “hutile” e ’”honore della città” molto amata dalla nobile famiglia dei Farnese, fu avviata la costruzione della “fornacella del vascellaro”, portando il vasaio a produrvi manufatti per circa due anni.19 Tornando al nostro Magister Angelo Remedi, nel documento notarile del 1571, è citato per l’acquisto di un’abitazione, cum plateola ante, dal proprietario Ser Orazio di Sigismondo de Asciano anch’esso figulo, presso il quartiere di Santa Vittoria, compresa tra la strada pubblica Romana e la bottega degli Alamanni e, prossima alla “Fonte del Rigombo”. Nel 17 aprile 1581, l’abitazione e la bottega sottostante, furono vendute dal figlio Muzio al “Magister Antonio di Alberto, fornaciaro, domum unam aptam ad stabulum, sitam in terra aquipendii” per una somma di scudi 25 (Orazio Astrei prot.101 (1581) c.49). Probabilmente la cessione dell’abitazione del Magister Angelo Rimedi e l’assenza in altri documenti a noi conosciuti porta a dedurre la sua scomparsa alcuni mesi prima della vendita, forse per il contagio del morbo malarico che afflisse i territori dell’Italia centrale.20 La famiglia Rimedij e le numerose botteghe artigiane presenti nella cittadina contribuirono sensibilmente alla ricerca di nuovi mercati con una considerevole produzione ceramica. La consistente diffusione raggiunse non solo i centri limitrofi e Romani ma si estese fino a nord nelle città di Siena e Firenze, al meridione in quelle di Napoli e Salerno e forse a Ovest in alcune città importanti lungo il versante Appenninico. Di fatto una nuova e proficua via commerciale, acquisita con un nuovo spirito imprenditoriale e mercantile, animò fortemente le attività sviluppando quella che potremmo definire una Local Trust.
Probabile localizzazione delle botteghe, Angelo RemidiJ (giallo), Muzio Rimedij (rosso)
Grazie al resoconto degli inventari di casa Medici possiamo notare quale tipo d’importanza e di pregio abbia potuto raggiungere la qualità ceramica, presente in diversi manufatti. Allestita nel guardaroba del Cardinale Ferdinando dè Medici, oltre al vasellame cinese, faentino, urbinate e derutense aveva anche “…due bacini, settantuno piatto fra grandi e piccoli di terra di Acqua Pendente, dua saliere, diciassette piatti di terra d’Acquapendente, … e di più sorti rottisi”.21 E come non citare la triste vicenda accaduta alla metà del cinquecento agli esponenti del neo imprenditorialità che, non solo percorreva le rilevanti vie terrestri per avvicinare le aristocratiche committenze, ma raggiungevano via mare nuovi e importanti mercati. Il complesso fenomeno di export degli oggetti ceramici indusse l’imprenditore Alberto Bonsagna nativo di Reggio di Lombardia e abitante in Acquapendente, e Pietroantonio […]rto vascellaro e Dino del Rosso mastro figulo, di dirigersi altrove. Il notaio apostolico Ludovico Morelli di Bagnoregio suocero del Bonsagna riferisce sul buon esito commerciale, “vasi mesturati in Acquapendente quali si usano et erano in buon prezo per essere lavoro moderno, portando et facendo portare del detto lavoro in Roma et in Napoli dove lo vendevano bon prezo et del anno 1549 era tornato da Napoli con assai buon guadagno di detti vasi dove aveva inteso che in Salerno si seriano venduti forte”.22 L’anno seguente pronti per un nuovo carico, salparono da Civitavecchia con un’imbarcazione carica di ventidue some (salme) di manufatti ceramici, per raggiungere il neo mercato campano, ma il 12 Settembre nelle acque dell’isola di Capri furono catturati dal corsaro Zoppino “cristiano rinnegato” alias lo “zoppo di Candia”, chiamato così per via della deformazione ad un piede.23 Della triste vicenda non possiamo far altro che cogliere come l’estremo gesto di conquistare nuovi mercati abbia definitivamente cancellato una tra le importanti botteghe ceramiche, avviate verso quella singolare imprenditoria locale che qualche anno più tardi, nel 1576 fu intrapreso da Felice di Ser Ludovico Benigni, il dottor Andrea Benci e il figulo Agostino di Battista fondando una società d’appalto dei lavori dell’arte ceramica. Il nuovo spirito che animava l’imprenditorialità coinvolse diverse figure professionali, oltre ai maestri figuli si aggiunsero i vetturali. L’atto stipulato nel giugno 1576, di fronte ai rappresentanti dell’arte dei figuli con Felice Benigni e il vetturale Massimo di Pietro, per il trasporto e la vendita di manufatti ceramici fuori dalla città di Acquapendente, consente di conoscere le singolari potenzialità delle botteghe ceramiche. Nel documento notarile (XVII), redatto il dì 7 giugno 1576 presso la chiesa di S. Vittoria in Acquapendente, alla presenza del notaio Ranuccio Alamanni, fu stipulato un contratto commerciale tra i Magister onorabili consoli per l’arte dei figuli dell’appalto di vascelleria e il vetturale Felice Benigni. Nell’atto sono riportati i nomi dei Magister presenti nell’onorabile congregazione dei vascellari, tra i vari nomi notiamo anche la presenza di “Magister Mutius Angeli” (A.S.Vt. not. Acquap. Ranuccio Alamanni, prot.42 (1575-1578), c.58v – 59v.). Nel 1579 la società si scioglie, e il vetturale Massimo di Pietro si lega con un nuovo committente, il Magister Muzio di Angelo Remedi. Il 4 Aprile dello stesso anno, nell’apoteca di Ser Almonte Ranieri, posta nel quartiere San Lorenzo, Muzio di Angelo Rimedi stipula l’atto con Ranuccio Alamanni, impegnandosi a cuocere entro un anno la vascelleria richiesta, e il vetturale si obbligava ad acquistare le “cotte” al prezzo stimato di scudi uno e mezzo a giuli dieci per ciascuno scudo per ciascun centenario, “Mutius, quondam Angeli Remedi, ab Aquipendio … dedit et obligavit a il lavoro et vascella grossi buono et recipiente giusto et mercantile et assortito nel infrascritto modo per ciasche cotta assortito in questo modo: Boccali num. Trecento; Mezzetti num. 150; Piatti grandi num. 175; Piatti da Mezzo num. 150; Piattellazzi conti num. 100; Scafardi num. 75; Scudelle tondi num. 150; Scodelletti num. 150; Tazze conti num. 125; Ciotole num. Settantacinque; Scodellini conti num. 100; Foglietti conti num. 15; Conche et Piatti Belli num. 15; e così deve essere ciascuna cotta” per un totale di 1580 manufatti (Ranuccio Alamanni, prot.43 (1578-1581), c.65v.).
Ordinativo delle “cotte” da eseguire
L’attività del Magister prosegue nelle carte notarili per la vendita della casa paterna, a ricevere per conto di Vivenzio Fini la soma di trenta scudi come confessione del debito (Orazio Astrei, prot. 107(1588-1590)c.25v); nel 1588 acquista da Sforza Maidalchini la parte di un mulino, atto a macinare colore, che lo stesso possiede indiviso con donna Speranza, Troiano Petrutio, Agostino Agnelutio, sito in contrada Rivo dell’Acqua corrente, presso i beni di Giovacchino Marchionni e la pubblica, per il prezzo di dieci scudi. (Orazio Astrei, prot. 107 (1588-1590)c.65 v); L’abitazione del maestro era posta nel quartiere di Santa Maria in prossimità della chiesa di San Pietro che occupava la strada “Maestra”. (Ranuccio Alamanni, prot.45 (1585-1592)cc.157-158). Nel 1595 scompare Magister Mutio Angeli Rimidij, forse uno dei ceramisti più interessanti di Acquapendente, lasciando dietro di se una quantità considerevole d’immortali manufatti, giunti a noi attraverso la vendita nelle importanti fiere cittadine, favorendo una rintracciabilità attraverso la rappresentazione stilistica del decoro. L’individuazione degli oggetti ceramici, rinvenuti in depositi temporanei di raccolta o gettati all’esterno delle abitazioni, ci permette di apprezzare le forme ma soprattutto le tecniche iconografiche a essi applicati. L’interesse per questi oggetti apre uno spiraglio sulla conoscenza storica di un territorio, fissando un rapporto tra la cultura materiale e l’espressione sociale, caratterizzato dalle numerose tipologie. Il coinvolgimento della ceramica, come bene di consumo che adornava la mensa dei nobili, si diffuse verso il basso della struttura sociale, emulando la vita quotidiana dell’élites attraverso le innovative forme: saliere, salsiere, rinfrescatoi e candelieri, stabilì con rinnovato gusto estetico la correlazione tra ceti diversi. E per i rapporti di contiguità artigianale, sebbene influenzato dai figuli delle super botteghe, il decoro si distinse come un’espressione d’impianto tipicamente “popolare”, divenendone un riconoscimento identificativo della produzione ad ingobbio sotto vetrina.24
Albero genealogico della famiglia Rimedij
PARTE IV
IL PIATTELLO
1,IV. I cibi
Il carattere popolare dei manufatti nell’inumerevole produzione ceramica si riscontra in uno dei tanti reperti, provenienti dalla “rupe” di Pitigliano.25 L’importante oggetto definito piattello o “piattellazzo”, oggi collezione privata, è molto legato, per la sua semplicità, alla tradizione culinaria del XVI secolo, avendo nel cavetto alcune indicazioni crittografate, composte prevalentemente da lettere e numeri. Come sia giunto a noi e quale sia stato il suo percorso, non è dato saperlo ma, l’importanza è resa palese dall’unicità del decoro, visibile nella sua interezza per le evidenti parole legate all’essenziale cibo dell’epoca, “CARNE – CASCIO – OVA – PANE – […] PESCE ?”. Possiamo dunque definire il piattello come un omaggio all’esaltazione dei cibi, immolati sulla tavola alla virtù del gusto, accompagnati spesso dal buon vino, racchiuso in boccali variopinti. Nel rinascimento, durante la giornata, di solito si consumavano due pasti: il pranzo, la ”commestio”, iniziava verso le undici, e subito dopo il tramonto la cena, il “prandium”. La tavola, imbandita diversamente secondo la distinzione sociale, molto sobria nelle umili dimore, di solito era composta di pane, verdure e frutta. Qualche uovo arricchiva la cena ma spesso diveniva piatto unico quando si usava cuocerlo con verdure. Il pane, sempre senza sale, perché molto costoso e difficile da trovare, alcuni lo preparano in casa e poi cotto nei forni pubblici. Il pesce era limitato a quello dei corsi d’acqua, dei laghi o lungo le coste del mare, perché il costo dei pesci più prelibati era molto superiore al costo della carne. Dalla trasformazione del latte si ricavavano preziosi alimenti, tra cui la ricotta e il formaggio, reperibili con facilità sostavano spesso sulle mense popolari. La carne, alcune volte propria risorsa, era composta prevalentemente da agnelli, capretti, maiali, manzo e pollame e doveva essere consumata subito o conservata fresca per pochi giorni.
A. Carracci, Il mangiatore di fagioli, 1585
L’evidente risorsa la possiamo notare riprodotta nel celebre dipinto di Annibale Carracci del “il mangiafagioli”(1585), presso la Galleria Colonna a Roma. Nella rappresentazione pittorica della tavola imbandita, il piattello è utilizzato per contenere del cibo, nello specifico della carne. La tipica forma del piatto, impiegato diffusamente dalla seconda metà del XV secolo, subisce in seguito una trasformazione del cavetto, divenendo nel secolo successivo di forma ridotta e dalla vascolarità poco accentuata.26 Il piattello nella sua particolare originalità trova riscontri iconografici in ceramiche provenienti da altri ambienti come quello di Farnese (VT) dove, a seguito delle attività archeologiche condotte negli anni novanta, furono rinvenuti all’interno del centro storico i cosiddetti “butti”. Dalla frammentazione ceramica, portata alla luce della conoscenza, individuiamo alcune similitudini nel decoro, posto nel bordo e definito “alla porcellana”. Dalla rupe di Sorano (GR) provengono altri frammenti ceramici, estratti nei rinvenimenti di seconda giacitura e studiati dall’Associazione Archeologica locale, presentano similitudini nel decoro. Ma sopratutto, per i confronti iconografici si veda l’innumerevole ceramica pervenuta dagli scavi, effettuati nel 1999 in via Cantorrivo presso Palazzo Morelli e nei pressi di Porta della Ripa in via Cesare Battisti n.72, eseguiti dall’Archeoclub di Acquapendente in accordo con la Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale. L’espressivo decoro, posto nel cavetto, potrebbe rappresentare due pennelli da figulo incrociati tra loro, e negli spazi quattro piccole rose separano a intervalli regolari lettere e numeri, prodotti in monocromia blu, formando una leggenda alquanto singolare. L’interpretazione affidata alla ricerca tipologica e alla presenza di artigiani figuli con caratteristiche onomastiche similari, si può affidare la probabile realizzazione al “M.[agister] M.[utius] – A.[ngeli] fi.[fecit] – I574”. Per un ragionato studio comparativo possiamo citare il lavoro svolto da Guido Mazza, in occasione del convegno “Le ceramiche medioevali e rinascimentali di Acquapendente”, il quale, propone l’oggettivo riconoscimento della ceramica in policromia su ingobbio sotto vetrina, basandosi sulla tema nel distinguere attraverso l’analisi iconografica e l’elemento iconologico. Il gruppo figurativo preso in esame tiene conto dei diversi modi di rappresentare l’espressione decorativa del figulo sulla ceramica, mantenendo la medesima caratteristica nel rapporto iconografico come forma distinguibile. L’analisi scaturita dal piattello appena descritto, tiene conto sul finire del XVI secolo di una produzione aquesiana, legata alla situazione geopolitica, compresa tra il Ducato di Castro, Latera e Farnese non tralasciando i territori di Ronciglione e Caprarola, avvicinandosi più a sud con i mercati diretti Montefiascone e Tuscania e verso la Contea degli Orsini con Pitigliano, Sovana e Sorano. Lo stretto rapporto politico tra Pitigliano e Acquapendente, saldo e duraturo, fu confermato opportunamente nei momenti di assoluto bisogno, favorendo uno scambio commerciale, come spesso avvenne in passato. La moderna espressione ceramica in “policromia su ingobbio”, resa evidente da una cospicua produzione di manufatti, come abbiamo visto si evidenziò con la costituzione dell’Arte dei vascellari, formata da proprie regole purché non in contrasto con le leggi statutarie emesse dal governo locale.
Piatto di “Lionia B.” proveniente da Pitigliano
2,IV. Elementi di confronto
Il documento stilato dal notaio Ranuccio Alamanni il 4 aprile 1579 obbligava il figulo Muzio di Angelo Rimedi a produrre e vendere una considerevole quantità di ceramica “lavoro di vascelleria fuori dalla terra di Acquapendente” in accordo con il vetturale Massimo di Pietro, nell’atto troviamo una serie di manufatti che il figulo doveva produrre, tra cui “Piattellazzi num. 100 e Conche et Piatti Belli, num. 15”. Oramai prossimi dal giungere con rinnovato gusto estetico la completa trasformazione tecnologica degli oggetti smaltati, la tipologia figurativa, dei cosiddetti “Piatti belli”, riprende nella composizione il gusto estetico delle maioliche di Deruta e di Urbino, trasportate nella ceramica dai figuli itineranti con un rinnovato carattere, tipicamente popolare. Nella rappresentazione figurativa delle cosiddette “Belle” potremmo supporre una possibile paternità espressiva attraverso la metodologia della scrittura, proponendo come elemento automatico la sequenza grafica. Il testo riprodotto nel cartiglio, permette una comparazione calligrafica attendibile, considerando il “gesto espressivo” come unica esperienza emozionale individuale, interpreta il tratto grafico come segno distintivo. L’analogia tra il carattere e la scrittura, spiega lo stato d’animo dello scrivente e, secondo il tipo di movimento che sta alla base dell’espressività, s’individuano analogie grafiche, spesso ripetute nel tempo. Pertanto, affidare la paternità figurativa alla sola espressività dell’immagine limita ulteriormente l’indagine ma, dovremmo tenere conto di ulteriori e convincenti informazioni scientifiche, legate sopratutto all’archeometria, alla iconografia e alla dattiloscopia, permettendoci di aggiungere una nuova comprensione sull’identificazione della produzione ceramica. La comparazione esteto-tipologica del piattello di Pitigliano, nel quale sono riportati i cibi essenziali, segue, per alcune similitudini, l’impianto decorativo della figura femminile con la scritta sul cartiglio “Lionia B.”. Secondo l’interpretazione di Romualdo Luzi, assieme ad altri due frammenti riportati nel suo articolo “Le belle nella ceramica di Acquapendente”(1997 pag.71, figg. 4-5), sono da attribuirsi a una medesima bottega e forse a uno stesso figulo. La stessa Giuliana Gardelli, nel suo saggio (2015) “Cramelia, la prima “bella” nella letteratura di Acquapendente” ipotizza che, in alcune produzioni come: la “CREMELIA” del 1596, in collezione privata; “LIUISA BELLA” del 1588 e “DOMENICA” esposta al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, si tratti della mano di un unico pittore. Arricchisce l’argomento, sulle “Belle” di Acquapendente, Giuseppe Ciacci, supponendo che, per la produzione di queste tipologie di piatti furono utilizzati per circa venti anni (1579-1596) gli stessi spolveri e lo stesso modus operandi, con lievi modifiche all’ornato e agli accessori. Come abbiamo visto diverse sono le caratteristiche iconografiche che ci permettono di individuare con estrema approssimazione la mano del figulo che realizzò il decoro. Per concludere, come abbiamo detto la ceramica fu presente in ogni luogo, e venne anche rappresentata nelle tele dai grandi pittori. Nella Cena di Emmaus (1601), dipinta da Michelangelo Merisi da Caravaggio e oggi conservata presso la National Gallery di Londra, compaiono sulla tavola elementi poveri e dimessi: un canestro di frutta, il pane, la brocca dell’acqua, e dei semplici piatti e una ciotola, nella quale il decoro interno appare molto simile ad alcune ceramiche prodotte in Acquapendente.
Michelangelo Merisi “Caravaggio” – Cena di Emmaus – particolare
Pitigliano, Sez. del piatto
Riferimenti Tecnici.
Il piatto o piattello, ricomposto in due parti, presenta l’argilla di color camoscio ricoperta da un strato sottile di ingobbio biancastro sotto vetrina ad effetto craquelé con diametro cm. 18 e l’altezza di cm. 3,5. Il bordo di colore giallo (antimonio) leggermente estroflesso presenta evidente scanalatura interna. Il decoro in monocromia blu (cobalto) è formato da piccoli tratti a spina di pesce o motivo “alla porcellana”(cfr. Pivirotto-Sideri 1993, p.32 tav. 4, n24A), (cfr. Luciano Frazzoni, 2007; p.20 tav.43, n.AB546M). Nel cavetto in cromia blu sono riprodotti lettere e numeri con senso logico. Il retro con fondo a disco leggermente concavo rivestito interamente a vetrina, presenta nel bordo impronte bianche del II’, III’ e IV’ dito della mano destra. (inedito)
Piatto sec. XVI – Fronte e Retro
Note
1 Cfr.A. Satolli, 1908-1910, Documentazione non riciclata sul programmatico saccheggio delle maioliche antiche orvietane, I.S.A.O., Orvieto, 2011, pag.43
2 Cfr. A. Satolli, 1908-1910, Documentazione non riciclata sul programmatico saccheggio delle maioliche antiche orvietane, I.S.A.O., Orvieto, 2011, pag.94
3 Cfr. L. Riccetti, Tra Collezionismo e Tutela, Ed. Giunti, Perugia, 2010, pag.81.
4 L. Riccetti, op. cit., pag.81.
5 Cfr. S. Malatesta, Il cacciatore di falsi, in “La Repubblica”, del 17 Settembre 2000
6 Cfr. R. Caprara, F. Dell’Aquila , Per una tipologia delle abitazioni rupestri medievali, in Archeologia Medievale XXXI, Firenze 2004, pp. 457 – 471.
7 Cfr. Minto, Trovamenti archeologici nella zona di S. Domenico, Orvieto, 1936, pagg. 251-267.
8 Il riutilizzo delle fosse da grano come “butto” seguono esempi analoghi a quelli presenti nelle cittadine dell’alto Lazio e nella città di Orvieto. La scoperta di una cisterna da grano, ricavata nel sottosuolo fuori dalle antiche mura urbane di Vetralla (VT), e riutilizzata come butto nel XVI secolo, non trova rispondenze sul genitivo contenuto, in quanto la presenza nello strato inferiore di argilla, adesa alla parete per una altezza di circa 60 cm., non garantisce la protezione dall’umidità alle derrate alimentari, ma la cavità potrebbe essere stata utilizzata come cisterna per il contenimento delle acque meteoriche. La nota (2) di E. De Minicis in “Una fossa granaria utilizzata come “butto” a Vetralla, 2002, Roma”, ci sembra orientato più al contenuto che al contenitore. Lo stesso vale per alcuni pozzi intonacati, presenti nella distrutta città di Castro. Cfr. R. Luzi, 2012, Il Viterbese nel seicento:ceramiche ingobbiate e smaltate, tra Castro e Acquapendente Considerazioni, note e aggiornamenti, p.211. Mentre all’interno delle grotte rinvenute a Formello (RM), poste fuori dell’abitato e riportate nel catasto del 1559, ci sono pozzi definiti “da tener da grano”, simili a quelli presenti nell’insediamento rupestre di Vitozza (GR).
9 I materiali, recuperati dallo scavo effettuato presso l’abitato di Vitozza, sono oggi esposti presso il Museo del Medioevo e del Rinascimento di Sorano (GR)
10 Cfr. R. Pivirotto, in Recuperi e Restauri, Ceramiche dalla cisterna nel palazzo Orsini di Pitigliano secoli XIV-XVIII, Pitigliano 2009, pp. 9-38
11 Cfr. L. Pesante, Le storie dei “butti” da contenitori di rifiuti a documenti archeologici, Viterbo 2012, pp. 24-25
12 Dalla cronistoria, scritta dal notaio P.P. Biondi, apprendiamo che Papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni) diede ordine di abbattere numerosi alberi nella selva della comunità, per avere a sufficienza legna da ardere per far mattoni e calcina, impiegati per la costruzione del ponte sul fiume Paglia (1579). Nel terreno dove si edificarono le fornaci si scopri che era particolarmente ricco di argilla, tanto che dopo il termine della costruzione del ponte si continuò a estrarla in abbondanza.
13 Cfr. F.T. F. Zeni Buchicchio, Documenti di Acquapendente sull’attività dei vascellari nel XV secolo e nella prima metà del XVI, Acquapendente, 1997, pagg. 33 – 46.
14 Il sodalizio creatosi delle varie attività artigianali si completò con l’unione dei vascellari con i fornaciari, i primi producevano vasi e recipienti all’interno delle botteghe presenti nella cittadina, i secondi operavano fuori della cinta muraria producendo laterizi e ceramica da fuoco.
15 La considerazione che Acquapendente sia stato nel medioevo un centro produttivo per la ceramica, esportando i propri manufatti oltre i confini della propria cittadina, lo deduciamo da un atto notarile redatto nel 1363 a Acquapendente in cui si costituisce una società tra due vasai: si prescrive che la metà della cotta sia venduta nel seguente modo: centonario vascellorum vetriatorum et bene cotorum V libras et V solidos, baccinetarum bene cotarum et vetriatarum donzina XXXVIII solidos, ciotularum centonario XXXVI solidos. I caratteri iconografici in verde ramina e bruno manganese e quelli tipologici, figurativi, araldici e geometrici, seguono uno sistematico studio comparativo con altri conservati nelle strutture pubbliche di Siena e Orvieto.
16 L. Duglas in Bullettino Senese di storia patria del 1903, riporta che attorno alla metà del ‘400 molti vascellai emigrarono in altre città per l’esiguo numero di artigiani presenti a Siena, anche il Magister Simone de’ Piccolomini andò a stabilirsi a Pesaro.
17 B. Mancini, L’attività figula in Acquapendente nella seconda metà dl sec. XVI nelle fonti d’archivio, in Atti del primo convegno di Studi cit,. pp. 73-100.
18 Nel periodo rinascimentale alcuni vasai migrano da Acquapendente per lavorare in altri centri, come ad esempio il vasaio Cesare di Antonio Contini, che dopo la morte della prima moglie si trasferì a Sorano nel 1587, ottenendo dal conte Orsini la licenza di apertura di una apoteca. Cfr. B. Mancini, L’attività figula in Acquapendente nella seconda metà del XVI secolo nelle fonti d’archivio, Acquapendente, 1997, p.84
19 Cfr. R. Luzi, 2012, Il Viterbese nel seicento:ceramiche ingobbiate e smaltate, tra Castro e Acquapendente Considerazioni, note e aggiornamenti. In La ceramica del seicento tra Lazio, Umbria e Toscana, pagg.211-230.
20 Nel 1579 e per tutto il 1580 in quasi tutto il territorio nazionale comparve una epidemia dal contagio pestilenziale, conseguente alla stagione particolarmente calda e afosa e dai bruschi cambiamenti climatici, provocò un sensibile calo demografico dovuto alle conseguenti morti. La malattia detta “mal del castrone” o “del Mattone” si manifestava con violenti attacchi febbrili e feroci emicranie. Secondo il Frate Quattrami di Bologna imputava la malattia alle “molte aperture profonde in assi luochi; di poi in un momento è sopraggiunto un fresco tempo quando doveva esser caldo” ed era “una infetion d’aria di qualche maligno vapor, che uscì dalla terra”.
21 Cfr. Federica Bruscalupi, Bollettino Associazione Biblioteche Lago di Bolsena, n. 1-4 a. 1991, pp. 15-17.
22 Cfr. Luca Pesante, Ceramiche inedite della Provincia di Viterbo esposte nella grande mostra sui “bianchi” di stile compendiario, n. 1-4 a. 2011, pp. 28-31.
23 Cfr. L. Pesante, 2013, Ceramiche e vasai alto laziali in viaggio per mare. Anno 1550, In XLV convegno internazionale della ceramica, Albisola, pp.39-44.
24 Nel 1968, da alcune ceramiche pervenute dalla distrutta città di Castro, Otto Mazzucato, conservatore della sezione ceramica del Museo di Roma, le definì, dipinte alla “brava”, per meglio dire, una “produzione popolaresca”.Cfr. L. COZZA, O. MAZZUCATO, Nella Maremma Laziale la Città di Castro tuta da scavare, “Archeologia”, VI , 1968, pp. 386-391.
25 Nei primi anni novanta del secolo scorso, a causa di una frana che coinvolse la parte meridionale del costone tufaceo di Pitigliano, portò alla luce una considerevole frammentazione ceramica, compresa per decoro e forma dal 1400 sino al 1700. La rilevante frammentazione si deve in larga parte allo svuotamento dei pozzi di raccolta per le nuove volumetrie di sottrazione, realizzate per lo più nel diciannovesimo secolo.
26 Cfr. M. CAROSCIO, Diffusione delle forme: i “nomina vasorum”nelle fonti coeve, 2009, p.16.
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TI FACCIO I COMPLIMENTI PER L’ARTICOLO SULLA FAMIGLIA “RIMEDI” GRAZIE PER IL CONTRIBUTO CHE DAI PER LA CONOSCENZA DELLA CERAMICA AQUESIANA,
VOLEVO SAPERE SE HAI VALUTATO LA POSSIBILITA’ CHE IL QUARTO ABBREVIATIVO PRESENTE SUL PIATTELLO “fi” [fecit] POTESSE ESSERE ANCHE INTERPRETATO COME “ri” [Rimedi].
CIAO E BUON LAVORO
Ciacci Giuseppe Archeoclub di Acquapendente
Carissimo Giuseppe, ti ringrazio per le incoraggianti parole, rispondendoti che: l’esame critico che ho adottato, seguendo una ragionata interpretazione dei caratteri onomastici, mi porta a credere che, il fugulo abbia voluto soltanto rappresentare le iniziali maiuscole del cibo e del nome. Mentre, la rapprersentazione di quelle che sembrerebbero due minuscole lettere [fi] sono relegate al marginale (fecit). Altrimenti, io credo, avrebbe espresso [R] per Rimedi.